Giuvann’ ‘e Zara, Catavuru, Taresa, Guerino, Peppino, ‘Mmaculata alcuni dei nomi al suono dei quali sono passati gli anni nel borgo del Gelso.
Abitavano lì, in piccole case, a volte stanze. I servizi igienici all’interno erano un lusso forse neanche desiderato; di certo mai conosciuto.
La privacy un concetto di cui non si immaginava l’esistenza. Gli amori consumati dietro i grossi tronchi secolari.
La cintura - ‘a currìa- il metodo educativo più diffuso. Pane raffermo inzuppato nel latte, lardo infilzato nel ferro arrotolato al fuoco fino a squagliarsi, grosse cipolle affettate nei pomodori dell’orto, vino di collina e olio delle ulive aziendali, raccolte una per una, era la dieta consigliata… dal bisogno.
I quattro rampolli di casa, fra tanta animazione e pullulare di vita, crescevano, intanto, in forze e fantasia, tra scorribande nei pascoli, capanne appollaiate sugli ulivi secolari, cavalcate “a pelo”, latte di mucca appena munto, e avventure d’ogni sorta.
Poi, a poco a poco, più nessuno. Il riscatto fu rappresentato dagli appartamenti alle periferie dei centri nuovi che stavano sorgendo intorno agli scali ferroviari, o dalle palazzine messe su mattone dopo mattone, in cui poter vedere crescere i figli e i figli dei figli. Di loro uno, Mimì, nato in queste stanze, è andato ad abitare anche lui altrove, ma ogni singola mattina della sua vita, prima del sole, è ancora e da sempre al Gelso, a controllare che tutto sia come lo ha lasciato la sera prima e far sì che ogni granello di quella terra, che sente sua e che coltiva con amore e perizia, possa ricambiargli a tempo debito le cure prestate con qualità e quantità dei prodotti. Poi l’orgoglio, non privo di ironia e finti mugugni, nel mostrarli ai proprietari, forse seconda famiglia.